Inizio da qui, da un punto ben preciso per raccontarvi chi sono, perché ciò che sono oggi è una valigia di ricordi, di tessuti ricamati a mano, di galletti all’acquerello, di piatti di ceramica “cuciti” con fil di ferro, di fisarmoniche che suonano una musica lontana, di calce bianca e grano arso.

Il mio punto ben preciso è il mio punto fermo.

Ho passato gran parte della mia infanzia e della mia adolescenza in un trullo, un delizioso trulletto che sembrava una riproduzione esatta in gesso di se stesso, un trullo in miniatura insomma.

Con tanto di aia (cortiletto esterno), albero di fico secolare, muretto a secco, campo di grano, piccolo pollaio con annesse galline da uova, ok credo che qualcuna di essa sia stata fatta in brodo dal massaro vicino di casa, conigli, gatti “cozzali” e topolini in credenza, alle volte.

Animali di compagnia erano un agnellino di nome Bianchetta, un volpino bianco come Bianchetta ma più chiassoso, un coniglio, bianco anch’esso e non proprio nano (era più grande di Margherita, la micia grassa e vecchia del massaro) ed anche un piccolo topolino grigio di campagna salvato dal pesticida nascosto nella dispensa, che fu però mangiato da Margherita in un’ assolata mattina di agosto dell’84.

Fu la prima vera “lezione di vita” che la natura mi impartì, la seconda fu quella di non rimettere Mai nella tana di una coniglietta partoriente un piccolo che è caduto fuori dal nido…mai, mai, mai…e non aggiungo altro.

Ci fu anche una terza lezione, non importunare a mani nude grandi calabroni neri e pelosi, insomma, nel piccolo trullo in mezzo al nulla, sotto il fico, seduta sul muretto a secco, con il mare di grano, mi sono fatta “le ossa”.

Ho amato giocare con quella natura che aveva il colore del sole, correre nei campi coltivati (ed essere puntualmente ripresa in malo modo dal – massaro – vicino di casa), passare le serate nelle feste in masseria (nulla a che vedere che le feste modaiole di oggi) 100% made in campagna, ad ascoltare il contadino musicista suonare la fisarmonica improvvisando improbabili melodie, vestita da “città” perché noi eravamo quelli della città e venivano inviati ovunque, porta bandiere di una “civiltà” fatta di coperte termiche, pentole a pressione, phon potenti e vestiti alla moda.

Tutte cose moderne che mia madre usava come mezzo di scambio, detto baratto, con la moglie del – massaro -, scambio non proprio equo e molto fruttuoso per la seconda, un po’ meno per mia mamma, che con molta “fatica” e scaltri metodi di persuasone, riuscì’ in cambio una cassapanca, un corpetto tessuto a mano di fine 800, una radio anni 40.

Questi sono i primi ricordi della mia Puglia. Una Puglia che si chiama Valle d’Itria, divisa tra due mari a cui sono particolarmente legata, Savelletri di Fasano con lo scirocco o bonaccia, Campo Marino con il maestrale che sferzava il pennacolo.

E poi c’era la Lecce di mia madre, i nonni, la casa in “città” e la casa di campagna, il tufo giallo, la torre a mare, i capelli neri, gli occhi neri e la pelle nera dei “locali”, il “pesce” di pasta reale (pasta di mandorle) ripieno di marmellata, le spiagge incontaminate e deserte, il campeggio, gli aghi di pino sotto i piedi.

L’altra infanzia, quella che oggi mi fa muovere i piedi a ritmo di pizzica e mi fa amare profondamente quella parte estrema di Puglia.

Il dopo sono vent’anni di lavoro nel settore turistico, da travel consultant fino alla mia “fatica” e gioia più grande, una Hospitality School che forma alcuni dei migliori operatori turistici specializzati in turismo di lusso della nostra zona. Ma sul di me di oggi si può trovare tanto sul web e non voglio annoiare, in mezzo c’è stata tanta strada, Parigi, Londra e Torino. Un “viaggio” di scoperta durato anni che mi ha ri-portato nella destinazione migliore, la mia Puglia.

Questo blog è un Diario, un caro diario, in cui mi sono ripromessa di raccontare questa terra, cosi come viene agli occhi e così come salta al cuore. 

Quando mi va e perdonate le mie assenze, ma soprattutto come mi va.

Ho iniziato queste “memorie” nel 2015. Avevo bisogno di scrivere, di lasciare parole che fossero briciole pronte a segnarmi la via ritorno, proprio come la storia di Pollicino. E avevo bisogno di un posto felice. E il mio posto felice si chiama Puglia.

Gaia Mongelli